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Tra leggere e scrivere... #2

Nella nostra rubrica Tra leggere e scrivere, abbiamo il piacere e l'onore di ospitare la bravissima autrice e traduttrice Micol Mian. Le sue parole d'amore per la lettura ci ricordano che i libri sono confortanti e terapeutici e che leggere — e leggere bene — non è soltanto il più salutare dei piaceri, ma è anche eccitante ed emozionante, un'opportunità di entrare in mondi sconosciuti e talvolta persino impensabili. 

Micol scrive in coppia con Sabrina Romiti da almeno dieci anni. Insieme hanno iniziato "a infestare l’ambiente della scrittura amatoriale con storie chilometriche a cui raramente si degnano di mettere la parola fine." In realtà, hanno portato a termine Opera al rosso, un riuscitissimo e intenso romanzo psicologico a tinte fosche (qui e qui), e Folco sotto il letto — primo volume della serie Gemini, edito da Triskell Edizioni (recensione - qui) —, uno dei migliori M/M attualmente in circolazione. 
Micol è anche autrice del romanzo breve I segreti delle lucciole e della novella Roots (qui). Tra qualche mese uscirà per Milena Edizioni il suo ultimo romanzo Dormono gli aironi (qui).

Vi ricordiamo che potete trovare Micol Mian e Sabrina Romiti su: 
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Ringrazio di cuore Micol per aver accettato di condividere con noi la sua passione per la lettura e la scrittura. Il suo è un tributo di riconoscenza ricco e commovente alle scrittrici e agli scrittori che hanno contribuito a plasmare la sua identità di autrice di talento, ed è un invito davvero sorprendente e meraviglioso a lasciar perdere tutto, perché quello che conta è iniziare a leggere. 

Vi auguriamo di cuore buona lettura e, come sempre, buon viaggio tra le parole.


Parlare di libri è una delle cose che preferisco in assoluto, quindi non posso che essere grata al blog Reading Rainbow Books per aver inaugurato questa rubrica proponendomi di prendervi parte. Grazie di avermi dato l’occasione per l’ennesimo sproloquio a tema! 

Due parole brevi per presentarmi, dato che sospetto mi dilungherò fin troppo in seguito: mi chiamo Micol, ho una trentina d’anni e non ricordo davvero un tempo in cui la lettura non abbia fatto parte della mia vita. Scrivo da sempre, quasi, e da quando ho diciotto anni condivido le mie storie con un pubblico – prima online, ora attraverso pubblicazioni più tradizionali – ma se mi chiedessero di scegliere tra leggere e scrivere, non credo avrei dubbi. Ho bisogno delle parole altrui per regolare il mio passaggio nel mondo, per attutirne gli stimoli o potenziarli, per riposarmi e trovare conforto e mettermi in gioco e comprendermi. Sono come l’aria, in un modo abbastanza letterale: non riesco a ricordare un giorno trascorso senza leggere qualcosa. Non scherzo, quando dico che una delle mie più grandi paure è quella di restare cieca. E il fatto che il mio lavoro – tradurre – mi porti a frequentare ogni giorno pagine e pagine di narrativa non ha intaccato per nulla la mole di parole che leggo per piacere. (Anche se ha contribuito, sospetto, a rinforzare il terrore di una cecità imminente…)

Come corollario di questa “lieve” voracità, c’è il fatto che i miei gusti sono piuttosto eclettici. Negli anni ho passato periodi interi – un po’ bui, un po’ difficili – a non leggere altro che fanfiction slash, perché la familiarità dei personaggi mi consolava tantissimo; ci sono state fasi in cui macinavo thriller e gialli come se non ci fosse domani, altre in cui consumavo quasi esclusivamente romance MM. In alcuni periodi ho letto solo in lingua inglese, in altri solo in lingua spagnola: è finito da pochissimo (per mia immensa gioia) una fase molto, molto lunga in cui faticavo a portare avanti qualunque lettura in lingua italiana. E i titoli che amo sono sparsi tra tutti questi generi – oltre al mare magnum della narrativa letteraria in generale – tanto che persino per quelli a me meno congeniali (come la fantascienza o lo storico) posso contare almeno un paio di romanzi che mi hanno cambiato la vita. (Per dire i primi che mi vengono in mente al riguardo: Gli dei di pietra di Jeanette Winterson e Q di Luther Blissett.) 

Ho riflettuto molto su quale filo rosso scegliere per questo pezzo, e alla fine ho deciso di circoscrivere il campo a dieci romanzi che hanno in qualche modo aperto il mio campo visivo: alla fine di ogni lettura mi sono trovata a pensare qualcosa di molto simile a: “Ma quindi con la scrittura si può fare anche questo”. Che per quanto mi riguarda è una delle sensazioni più belle del mondo. 

Non appartengono a un solo genere – gusti eclettici, dicevo – ma sono riuscita per qualche miracolo a radunarli in tre grandi microcategorie che frequento con particolare piacere: gli sguardi introspettivi, le riscritture di favole&miti e il realismo magico/gotico/fantastico letterario. Oltre a un thriller che fa un po’ da jolly e non rientra in nessuna delle categorie, ma amo troppo. 

Buona parte dei romanzi sono a tematica LGBT, e c’è una preponderanza di autrici: un po’ per scelta “pilotata” (qualche anno fa mi sono imposta di leggere più donne) e un po’ per affinità personali. Spero che possano intrigare anche qualcuno che magari non li conosceva, e illuminino la sua vita quanto hanno illuminato la mia.

Comincio con la categoria più arbitraria e indefinibile: tre romanzi che sento affini – e ho amato per ragioni simili – e in cui il bilancio azione/riflessione tende decisamente a favore di quest’ultima. I titoli che ho scelto – perché mi hanno folgorata – sono Tutto ciò che ti appartiene, di Garth Greenwell, L’amante di Marguerite Duras e Il corpo odiato di Nicola Lecca. In tutti e tre, un protagonista narra in prima persona eventi tutto sommato minori, che diventano in qualche modo cifra stessa della vita, oltre che specchio del lettore: uno specchio impietoso, eppure talmente bello da essere anche dolce. 

Altro tratto in comune – che ho notato solo mentre li mettevo a confronto per capire se aveva senso parlarne insieme – è che il protagonista narratore si trova lontano dal paese natale, in una sorta di esilio: un americano in Bulgaria nel romanzo di Greenwell, un italiano in Francia in quello di Lecca e una francese in Indocina in quello di Duras. Non è un dettaglio da poco, credo: in tutti e tre i casi, l’essere sradicati non fa che sottolineare l’estraneità profonda che i protagonisti sentono verso la vita, vista dall’esterno, spesso, più che vissuta. E al tempo stesso, radiografata con una certa spietatezza. 

Qualche dettaglio in più su ciascuno, anche se non potrò far loro giustizia. 

Tutto ciò che ti appartiene di Garth Greenwell è uscito nel 2016 ed è già considerato uno dei classici della narrativa del nuovo millennio; sicuramente è imperdibile per qualunque canone della letteratura LGBT contemporanea. È stato tradotto di recente in Spagna, dove sta mietendo consensi a tutto spiano; in Italia è uscito per Mondadori l’estate scorsa, nella traduzione bellissima di Matteo Colombo, e merita, assolutamente. Sotto ogni punto di vista. La storia, di per sé, è riassumibile in breve: un americano che insegna inglese a Budapest incontra un giovane prostituto e inizia con lui una relazione complessa – e complicata dalla barriera linguistica – che lo porterà a scontrarsi anche con problematiche dure come la violenza e la malattia. Ma l’incontro con Mitko – che non a caso è l’unico personaggio provvisto di nome dell’intero romanzo – è soltanto un pretesto per uno scavo dolorosissimo (e divinamente reso) all’interno dell’animo umano, della solitudine al suo centro, degli oscuri sensi di colpa che ci portiamo addosso, della maniera in cui il desiderio ci segna, e trova espressione. Personalmente, l’ho trovato meno tragico di quanto mi fossi aspettata dalla quarta di copertina: non è straziante, solo… intimo. E come tutte le intimità ferisce, quando ti ci rivedi dentro. 

L’amante è forse il romanzo più famoso di Marguerite Duras, un’autrice che conosco poco ma che vanta nella sua biografia un’uscita scandalosa dal Partito Comunista francese per questioni vincolate alla libertà sessuale e una relazione poliamorosa ante-litteram con due compagni di partito ed espulsione. (Pare. È un pezzo che mi riprometto di approfondire.) Brevissimo, e piuttosto autobiografico, racconta la relazione sessuale tra la protagonista quindicenne e un cinese molto più adulto di lei sullo sfondo di quell’Indocina coloniale che l’autrice stessa ha conosciuto da bambina, ma come nel romanzo di Greenwell questa vicenda sembra essere soprattutto lo spunto per un’indagine molto più profonda sul punto di vista di chi scrive, su come la memoria può essere ricostruita, e fallace, sulle articolazioni complesse di sessualità e desiderio e su un sacco di altre cose – tra cui il rapporto con la famiglia – che mi manca lo spazio per descrivere. La scrittura è straordinaria e la narrazione personalissima, composta di brani brevi, intrecciati in un ordine perfetto ma non cronologico, che costituiscono continui rimandi e approfondimenti e buchi che si verranno a colmare più tardi. Se amate la bella scrittura, lo consiglierei anche solo per questo. 

Il corpo odiato è un po’ un outsider in questo elenco, invece, perché l’ho incontrato una decina d’anni fa in biblioteca e non credo di averlo mai visto citato in giro, ma gli sono ancora legatissima per tutta una serie di motivi che esulano da quelli strettamente personali. Sulla carta, è la storia di un ragazzino che combatte con l’anoressia e con l’omofobia interiorizzata, ma secondo me racconta soprattutto del male che uno può farsi quando cerca di controllare tutto: se stesso, il mondo, il proprio corpo (sia in termini fisici, che di pulsioni e desiderio). Narrato in forma di diario, che poi è un esercizio quasi clinico e uno sfogo personale del perfezionismo che tormenta il protagonista in ogni altro ambito della vita – esemplificato dal fatto che non tollera gli spazi bianchi, e quindi scrive tutto di seguito, in un flusso di coscienza che per qualche miracolo riesce a risultare armonioso e coerente invece che confuso – è letteralmente disseminato di frasi che sono come un pugno allo stomaco per qualunque perfezionista più o meno compulsivo. La prima volta che l’ho riletto, dopo averlo acquistato, ho riempito il libro di sottolineature così trasparenti che quando, anni dopo, ho dovuto prestarlo, sono stata seriamente tentata di comprarne un’altra copia solo per non dovermi mettere così a nudo. Anche questo, ovviamente, è molto consigliato.
Visto che mi sono dilungata tantissimo sui primi tre, cercherò di procedere un po’ più spedita. Le riscritture e rivisitazioni sono una delle mie passioni – confluita anche nell’amore che provo per il fandom e i lavori trasformativi – e dei tre titoli che propongo al riguardo, due almeno non hanno quasi bisogno di presentazioni. 

Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese è un testo così incredibile che mi fa quasi effetto citarlo solo in relazione alle riscritture, perché di fatto è poesia in prosa, e poesia bellissima. Dato che però di fatto è una riscrittura in chiave dialogica dei principali miti greci – da quello di Orfeo a quello di Giacinto, passando per Edipo, Odisseo e Arianna e tantissimi altri – non poteva mancare. È molto più di questo, però, davvero: tra tutti i libri che ho in casa, è tra i pochi che salverei a occhi chiusi senza soppesarlo con gli altri. Dentro, chiunque può trovarci se stesso. E forse anche, per usare un’espressione a lui cara, il proprio destino. 


Parlando di rivisitazioni, poi, La camera di sangue di Angela Carter è forse una delle più famose, e in particolare rappresenta uno dei capostipiti delle riscritture in chiave femminile. Si tratta di favole, in questo caso – che del resto, in parte, sempre miti sono – che nella prosa di Carter diventano lo scenario di vicende conturbanti, inquietanti e avvolgenti, che mettono a nudo (e rovesciano) la violenza insita in quelle narrazioni a noi tanto familiari. Un po’ come mettere in mano un coltello a Cappuccetto Rosso, insomma, e mandarla incontro al lupo. (Con cui, spesso, stringerà un patto per assassinare il cacciatore). Io amo Angela Carter di mio, e alcune di queste storie fanno parte del mio personalissimo pantheon di ritratti narrativi, ma a prescindere dall'aspetto soggettivo, è una raccolta imperdibile per chiunque ami le favole. 
E sempre di favole, questa volta riviste in chiave lesbica, parla Emma Donoghue ne Il bacio della strega: poetico, personalissimo, con un filo rosso che unisce – e porta verso il lieto fine – tutte le storie classiche raccontate, è una lettura più semplice de La camera di sangue ma non meno rivoluzionaria; forse un po’ meno crudele. Io lo adoro, e tornarci mi fa sempre bene.

Quella del fantastico è una categoria complessa e super variegata e non starò a tediarvi sull'argomento (che però mi affascina molto, tanto che ci ho scritto la tesi di specialistica). I tre romanzi che propongo non vi rientrano a pieno titolo e sono stati presentati – a ragione –con altre definizioni. Si tratta di tre opere (femminili) piuttosto diverse nel tempo e nello spazio, ma che mi hanno illuminata con intensità simile: Amatissima di Toni Morrison, L’estate che sciolse ogni cosa di Tiffany McDaniels e Her Body and Other Parties di Carmen Maria Machado, che stando al sito dell’autrice dovrebbe arrivare in Italia in un non ben precisato futuro. 

Ora, scendendo nello specifico. Toni Morrison è forse la più famosa autrice afroamericana, e Amatissima è forse il più famoso tra i suoi romanzi: le è valso un Pulitzer, oltre al Nobel che ha vinto nel 1993. È un romanzo terribile e splendido, ambientato intorno a metà Ottocento in un paese dell’Ohio dove gli schiavi neri liberati e fuggiaschi potevano trovare rifugio. Ed è una storia di fantasmi, per certi versi: punto focale è lo spirito di una bambina morta nella casa in cui si ambienta il romanzo, figlia della protagonista, ma anche quello di tutti gli africani morti durante la tratta atlantica, e durante la schiavitù nelle piantagioni; e un po’ forse anche quello dell’umanità intera. Le violenze che ha subito e inflitto, i modi incredibili, impensabili, in cui ha saputo sopravvivere nonostante tutto. È bellissimo, e agghiacciante, e ipnotico; parla dell’amore di una madre, di come possa essere spaventoso, soprattutto in un contesto in cui la prima lezione che impari è di amare poco, cose piccole e a piccole dosi, perché l’amore stesso è una debolezza imperdonabile. Una storia d’orrore reale – la ricostruzione storica è dettagliatissima – e al tempo stesso una delle prose più belle, e ricche, e profonde che abbia mai letto. 

L’estate che sciolse ogni cosa è molto più recente, invece: opera di un’autrice esordiente, portato in Italia l’anno scorso da Atlantide Edizioni, è stato definito come il primo vero esempio di Southern Gothic del XXI secolo. Non mi dilungherò troppo sulla trama o sul perché l’ho amato, dato che l’ho già fatto abbondantemente altrove (recensione - qui), ma è la storia di come, nel 1984, un bambino nero che si fa chiamare Lucifero arriva in un paesino bianco dell’Ohio portandosi dietro un’estate terribile, e innescando nella vita del protagonista, della sua famiglia e del suo paese una serie di conseguenze strazianti e ampiamente annunciate. Parabola di follia collettiva, pregiudizio e intolleranza, ha una scrittura particolarissima – che personalmente adoro – e resta in bilico sulle crepe della realtà, offrendo una prospettiva tanto distorta e allucinata quanto lirica. 

L’ultimo, Her Body and Other Parties, è una raccolta di racconti pubblicata negli USA l’anno scorso che ha fatto incetta di premi e di cui mi sono innamorata follemente. L’autrice, Carmen Maria Machado, è apertamente queer e tutti i suoi racconti sono espressione di un punto di vista femminile spudorato e intensissimo; scavano nelle esperienze femminili più comuni e vi applicano una sorta di straniamento, servendosi – in modo magistrale – degli strumenti che il fantastico mette a disposizione proprio per questo; pescano abbondantemente nella cultura pop – uno dei racconti più lunghi è letteralmente una riscrittura perturbante di tutte le stagioni di Law&Order – e nelle problematiche femminili più complesse e dolorose, come l’ossessione per il corpo perfetto, la maternità, il tema del consenso, la violenza domestica (anche nelle relazioni omosessuali), i disturbi mentali, per offrire un quadro complessivo che è tanto disturbante quanto ipnotico. E più realistico di tante storie più verosimili, com'è tipico della letteratura, del resto. Quindi insomma: tenete gli occhi aperti. Prima o poi dovrebbe arrivare anche da noi.

Per concludere questo elenco imbarazzantemente lungo – perdonatemi, davvero – un thriller che fin dalla prima lettura è diventato per me il termine di confronto obbligato per il genere (e non solo): Nel bosco, di Tana French. Che all'estero è considerata una delle autrici di literary thriller più affermate, ma in Italia è venuta alla ribalta solo quest’anno, quando Einaudi ha pubblicato quello che allora era il suo ultimo romanzo, L’intrusoNel bosco apre la serie sulla Omicidi di Dublino in cui si inserisce anche L’intruso, ed è sicuramente il più imperfetto tra i volumi che la compongono: sia nello stile – forse un po’ troppo fiorito – sia nella trama, che si chiude con un colpo di scena meno intrigante degli altri e soprattutto compie una scelta molto rischiosa che ha polarizzato i lettori. Per me resta il romanzo più speciale di quelle che è la mia autrice di thriller preferita in assoluto, però. Il protagonista è un detective della Omicidi di Dublino che ha nel suo passato un buco nero di ricordi: una mattina è andato a giocare nel bosco con gli amici ed è tornato a casa giorni dopo, solo e insanguinato. Nessuno sa che ne sia stato degli altri e lui stesso ha un blocco totale al riguardo. Blocco che verrà messo in discussione quando, nel paesino della campagna irlandese dove è nato, viene ritrovato il corpo di un’altra bambina, e lui deve tornare sul posto per indagare sull'accaduto. E nonostante la trama sembri scritta appositamente per me – tocca tutti i miei punti deboli – Tana French è una narratrice così abile, e le psicologie dei suoi personaggi sono così umane e complesse, che mi sento di consigliarla davvero a chiunque apprezzi il genere. E forse anche agli altri.

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1 Commenti

  1. Un elenco stupendo, molti li ho letti e alcuni non vedo l'ora di leggerli!

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